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Madre, padre, genitore: il rischio della metafisica

La Suprema Corte ha confermato la dicitura ‘genitori’ al posto di ‘padre’ e ‘madre’ sulla Carta d’identità elettronica dei e delle minori. Qualche riflessione.

di Monica Lanfranco

La storia umana ci insegna che nei momenti di crisi la paura è il sentimento che guida le azioni e i pensieri umani, e di conseguenza le tensioni reazionarie risultano rischiosamente dominanti. Semplificazione, omogeneizzazione, fine del pensiero critico, calo dell’ascolto, scomparsa del conflitto generativo.

La guerra in ogni sua forma, che attua tragicamente la cancellazione dell’empatia e della fragile concretezza dell’esistenza, è più efficace della negoziazione, così come la cancellazione di ogni differenza, perché ogni differenza è, di per sé, una faticosa ma necessaria domanda di dialogo.

Per questo non mi ha sorpresa la (brutta) decisione assunta dalla Suprema Corte che ha confermato la dicitura ‘genitori’, al posto di ‘padre’ e ‘madre’ sulla Carta d’identità elettronica dei e delle minori, rigettando il ricorso del governo dopo la richiesta di una coppia di donne ai giudici per ottenere sui documenti del figlio la corretta indicazione, e non ‘padre’ per una delle due madri. Domando: se la coppia era formata da due donne la corretta indicazione per l’altra coniuge non sarebbe stata, accanto a ‘madre’ l’aggiunta di convivente, o madre adottiva? Perché cancellare due donne, di cui una la madre biologica? Cosa non va in ‘chi ne fa le veci’?

“La dicitura padre/madre sulla carta d’identità elettronica è discriminatoria” – si legge nella sentenza n. 9216 che respinge il ricorso presentato dal ministro dell’Interno e conferma la decisione della Corte d’Appello, secondo cui la dicitura padre/madre “non rappresenta tutti i nuclei familiari e i loro legittimi rapporti di filiazione. L’indicazione corretta è dunque genitore”.

Sì, non tutti i nuclei familiari sono composti da una donna e un uomo, e ci sono molti modi per essere madri e padri, oltre a quelli biologici. Ma, domando: perché per rappresentare la varietà di combinazioni, di parentela e di legami di responsabilità e cura per figlie e figli si cancella il legame dell’origine, quello materno, senza il quale non c’è esistenza?

A volte ritornano: nel 2013 scrissi già di questo, quando una parte del movimento lgbt celebrò come una vittoria il precedente che aboliva, in alcune modulistiche, la dicitura madre e padre sostituita da genitore (maschile, non è stata mai prevista la parola genitrice, che sarebbe corretta nel caso di una donna).

I tempi complessi che viviamo non facilitano né la produzione di pensiero né lo scambio, ma provo comunque a chiedermi: perché se c’è da ‘includere’ (verbo che ritengo pericoloso, perché prevede il reclutamento e l’assimilazione) o da ‘non discriminare’ o da ‘valorizzare’ si cancellano, in automatico e sempre, le donne?

Per oltre 30 anni si è penato per poter aggiungere – aggiungere, non sostituire – il cognome della madre a quello, scontato, del padre; per decenni, e non è ancora ovvio sebbene la grammatica lo preveda, si è detto dell’importanza di nominare la differenza sessuale nelle professioni dove le donne prima erano escluse, e in virtù di questa negazione ancora molte, tra le donne, non si nominano come avvocate, magistrate, architette, ingegnere, perché “quello che conta è il ruolo”. Peccato che tale ‘ruolo’ venga pensato come maschile: come mai alle elementari la frase il maestro Paola sarebbe errore rosso per non concordanza?

Se nelle spinte alla conservazione dei ruoli e delle funzioni c’è la paura del cambiamento, e i regimi fondamentalisti cristallizzano le donne e gli uomini nelle gabbie degli stereotipi funzionali alla discriminazione, a me pare che in chi pensa che la cancellazione della madre sia una vittoria e un trionfo della molteplicità (madre non è, però, solo una parola) ci sia uno scivolamento tragico e pericoloso verso l’esatto opposto dell’apertura e della disponibilità a modificare l’esistente.

Consiglio la lettura del testo di Adriana Cavarero e Olivia Guaraldo Donna si nasce (e qualche volta lo si diventa) nel quale, come sottolinea Silvia Acierno “c’è un grande desiderio di riportare il femminismo a casa, in una sua dimensione, di ridare a questo femminismo, inglobato quasi dal movimento LGBTQ+ e che questa dispersività e l’aggressività del transfemminismo sembrano rendere ‘obsoleto’, una sua autonomia, un suo senso proprio. Oggi ancora più necessario”. Proprio Cavarero, in un dibattito alla Fondazione Einaudi, ha illuminato la tendenza di parte del movimento transfemminista verso la deriva metafisica: cosa c’è di meno vicino ai corpi, la prova incarnata della differenza sessuale e dell’unicità di ogni esistenza, delle soluzioni ‘inclusive’ nella lingua scritta, come asterisco, schwa o l’uso comico della u, dove si sacrifica, cancella e nega il femminile?

L’appiattimento giurisprudenziale su un lessico apparentemente rispettoso di casi singoli a me pare il frutto della scarsa volontà di trovare soluzioni personalizzate per una minoranza che, giustamente, chiede di essere nominata. Le soluzioni ci sarebbero, come ho provato a dimostrare prima. Ma se si fa piazza pulita del femminile del mondo, (oltre la metà delle persone sulla terra), e se si è così disinvoltamente veloci a eliminare (per ora nel lessico) le madri allora c’è di cui pensare.

16/04/2025

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